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La suprema beatitudine buddhista (Paolo Vicentini)
da «Esodo», anno XXIII - nuova serie,

n. 3, luglio-settembre 2001, pp. 52-57
Vi è stata una lunga e radicata tradizione di pensiero in Occidente che ha interpretato il buddhismo come una dottrina pessimistica e nichilistica, negatrice del mondo e proponitrice di un annullamento, di un dissolvimento totale dell’individualità.[1] Solitamente poi, e curiosamente, questa interpretazione si accompagnava ad un’altra che poneva l’ideale di liberazione buddhista, ossia la realizzazione dello “spegnimento” o “estinzione” (nibbâna), come il risultato di un atto estremo di egoismo. Illustre rappresentante di questa tradizione fu Max Weber, il quale ancora negli anni Venti del secolo appena trascorso scrisse: ⤵️http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/buddhismo/supremabeatitudine.htm
https://www.duepassinelmistero2.com/studi-e-ricerche/filosofia-e-religioni/inno-al-logos/

Inno al Logos (di Filippo Goti)
1. Introduzione

Il Nuovo Testamento offre molteplici spunti di riflessione attorno a quegli elementi caratterizzanti di ciò che oggi riteniamo, essere il cristianesimo, ma che in quel limbo magmatico dei primi secoli della nuova erano frutto di accesi dibattiti e scontri non solo verbali. Direttamente o indirettamente il Nuovo Testamento offre, per coloro che sanno dove posare l'intelletto, evidenze attorno ad una genesi eterogenea del cristianesimo, di una moltitudine di forme rituali con cui preservare e manifestare il sacro, all'alternativa fra una struttura piramidale con al vertice una classe sacerdotale oppure di una gestione comunitaria ed elettiva del sacro, ed infine della conflittualità fra una vocazione al settarismo ed una successiva rivolta al proselitismo.
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